Scrivi il tuo libro con me ✍️

37 anni e sentirli tutti (io, il lavoro freelance, la ricerca di significato, e la mia ansia)

Intanto posso darti questi.
E così dicendo mise sul banco quattro banconote da 100 euro.
Esitai un attimo e lei si sentì in dovere di aggiungere che gli altri me li avrebbe dati la settimana prossima.
Non ci stavo pensando affatto.
Pensavo solo a quelle 4 banconote da 100 e al fatto che erano tantissimi soldi.
Che non me l’aspettavo. Che non ci speravo.

È successo più di dieci anni fa.
All’epoca avevo 26 anni e sentivo di aver già giocato troppe carte per poter sbagliare ancora.
Ero stato più cose.
Avevo provato più cose. E non era andata.

Così mi ero rassegnato e avevo messo da parte la maggior parte delle idee con cui ero cresciuto e a cui avevo creduto. La più importante era il fatto di essere speciale e destinato a grandi cose.
A un certo punto, stanco, mi ero detto che andava comunque bene così. Qualcosa da portare in tavola, non mettersi nei guai con la legge, poter dormire tranquillo. Bastava quello.

Dopo tante esperienze e tante avventure era come se a ventisei anni mi fossi già ritirato dalla competizione. Avevo chiesto aiuto a un amico ed ero stato felice quando mi disse che sì, mi avrebbe aiutato.
Andavo la mattina in ufficio. Dividevo la stanza con la moglie e con un simpatico giovanotto più grande di me di qualche anno ma che sembrava di anni ne avesse il doppio.

Era ingegnere, come amava ricordare.
Solo che si occupava di registrare le fatture al pc. Che non era così entusiasmante ma - anche questo amava ripeterlo - non era neanche così male se gli permetteva di portare a casa ogni mese quasi 800 euro.
Insomma, dopo aver creduto a tutte le storie sulla possibilità di determinare il proprio futuro, del non accontentarsi, del sognare in grande, mi ero ritrovato in un ambiente in cui le storie erano completamente diverse.

Accontentarsi non andava bene. Andava benissimo.
E io la lezione l’avevo ormai capita.
Neanche un anno prima ero in giro per l’Italia e quando chiudevo un qualche contratto e intascavo una provvigione di 2/3mila euro mi sentivo insoddisfatto. In quell’ufficio, con il mio simpatico compagno di mattinate, prendevo 80 euro la settimana.
Ma ero soddisfatto.

Me li dava in contanti.
Il sabato.
Chiaramente in nero.
Io per prima cosa andavo al supermercato a esibire la mia ricchezza. Prendevo il latte per i bambini e qualcosa per premiarmi per il duro lavoro. Tipo una bottiglia di vino. Anche di 8 o 9 euro.

Poi un giorno incontro un tizio più triste di me.
Come va gli chiedo.
“Come vuoi che vada? Una merda”.
Sul momento non dissi niente.
Ero ormai così convinto che il problema fossero le aspettative, aspettarsi qualcosa.
Ci bevemmo una birra e un paio di storie.
Alla fine uscì che nel frattempo smanettavo al pc, con robe come i social e i siti web.
Lui faceva l’agente.
Si illuminò e mi disse: “forse ho un cliente per te”.
Io al fatto di poter avere un cliente non ci avevo mai pensato. Non per quel genere di lavoro almeno.

Un’ora dopo eravamo entrambi in una farmacia di provincia e io a parlare di web, dell’esigenza di comunicare e altre cose che avevo preso l’abitudine di leggere al pc mentre ero in ufficio e non sapevo che fare.

La dottoressa mi stava a sentire in silenzio. Come fosse davvero interessata. E infatti lo era davvero.
Lo capì quando chiese: “ok, quanto volete?”
Stesi in silenzio.
Il mio amico triste invece rispose in un lampo: “1200”.

Lei disse qualcosa sul fatto che erano tanti soldi. Che erano tempi difficili. Che per quella cifra avremmo dovuto fare davvero un buon lavoro.
Poi aprì la cassa, prese 4 banconote da 100 e le mise sul bancone.

Intanto posso darti questi.

Dopo 10 minuti io e il mio amico triste, diventato felice, eravamo al bar a bere e festeggiare.
“Questi a me, questi a te”.
Dividemmo in parti uguali. Ma l’accordo era che per la restante somma io mi sarei tenuto qualcosa di più.
Ma non solo.
Si mise al telefono e nel giro di 10 minuti organizzò una decina di appuntamenti.
L’ingegnere, il meccanico sotto casa, il tizio con la bottega alimentare che si era fissato di voler vendere on line.
Mandai un messaggio per dire a casa che non sarei tornato a pranzo.
Tornai che era sera.
Con duecento euro in mano in perfetto stile uomo/cacciatore che torna a casa con la preda e salva la famiglia.

Il giorno dopo chiamai il mio amico, quello che mi aveva aiutato e dato un “lavoro”.
Gli spiegai che avevo trovato altro e che non sarei più andato in ufficio.

Andai solo per salutare la moglie, che con me era sempre stata gentile. E il mio amico ingegnere che faceva una vita del cazzo davanti a un pc per 800 euro al mese.

Io, invece, avevo appena svoltato.

A casa iniziai a fare subito i conti.
Dunque: “diciamo che prendo anche 800 euro da ogni cliente”.
“Diciamo anche che prendo 10 clienti al mese, cosa fattibile… sì dai ce l’ho fatta. Stavolta ce l’ho fatta”.

La cosa fantastica, così mi sembrava, non riguardava tanto le cifre. Soldi, nonostante la mia giovane età, ne avevo sempre visti parecchi.
Solo nell’anno prima, avevo passato le sere giocando a poker per un mese di fila e portato a casa 17mila euro. Ma nel poker i soldi si vincono, e anche perdono.
E con un’azienda avevo generato provvigioni per oltre 40 mila euro. Ma quando mi presentai in banca per incassare un primo assegno di 2000 euro, il tizio mi guardò malissimo e mi disse che non era coperto.

Questa volta invece dipendeva solo da me.
Avevo finalmente trovato il modo per entrare nel meraviglioso mondo dei "capi di se stesso", quelli che lavorano quando vogliono e non hanno limiti alle proprie entrate.

Avanti veloce: non era esattamente così.
La signora buona e gentile che mi aveva dato 4 banconote da 100 iniziò a diventare meno buona e gentile.
Passai un anno per recuperare metà di quanto pattuito e mi ritrovavo a dover andare anche due o tre volte la settimana per vedermi passare 40 o 60 euro sul bancone.

I clienti, i famosi clienti che avevamo trovato, smisero di rispondere al telefono quasi tutti dopo il primo preventivo.
Altro che svolta. Un clamoroso tonfo.

Mi chiamò il mio amico, quello che mi aveva offerto il lavoro.
Continuavo a vederlo perché la domenica giocavamo a calcio insieme. Mi chiese di tornare da lui in ufficio.
Mi fece chiamare anche dall’ingegnere.
Io però ormai non ne avevo alcuna voglia.
Non ne avevo la forza.
Avevo smesso di credere alla storia del “va bene così” ed ero tornato a credere che dopotutto avrei potuto fare qualcosa di speciale. Oddio, non proprio speciale. Ma guadagnarmi da vivere in maniera più piacevole e gratificante, quello sì.

Nel frattempo era “una merda”, come aveva detto quel giorno il mio amico triste.
Mentre i compagni di liceo si specializzavano, si iscrivevano a master internazionali, firmavano i primi contratti di assunzione, io passavo le giornate provando a vendere cose e soprattutto provando a incassare qualcosa di quanto venduto.

Intorno a me, una costante: familiari avviliti, amici pieni di buoni consigli, proprietari di casa pentiti e scontenti: non a caso dovetti cambiare qualcosa come dodici case in 4 anni.

Di quel periodo ho tante di quelle storie tristi da scriverci un libro. Come il fatto che mio figlio, all’età di due anni, a casa della nonna soffiava sulle lampadine. Eravamo stati a casa per un mese senza energia elettrica e lui si era convinto che ogni fonte di luce fosse una candela su cui soffiarci su. Oggi ci rido, ma ci rido soprattutto perché lui questa storia non se la ricorda.

E poi c’era quella frase lì: dovresti trovarti un lavoro.
Io lavoravo, almeno se qualcuno avesse tenuto conto delle ore spese davanti al pc a inventare cose e provare a vendere cose.
Solo che la maggior parte delle persone, diciamo il mondo, non accetta che un lavoro possa non prevedere un qualche scambio di denaro.

Vabbè, questa è un’altra storia.
Ad ogni modo, poi, finalmente, quando quasi non ci credi più, piano piano le cose migliorarono. Un cliente, un altro cliente, un altro ancora. Soprattutto pagante.
Una persona che ti da una mano, un’altra che ti aiuta in qualche altro modo e alla fine anche le storie ingarbugliate hanno un punto di scioglimento.

Oggi, nessuno mi dice più di trovarmi un lavoro.
Anzi.
Ogni tanto viene qualcuno a casa e mi trova al pc.
E non importa se io stia cercando una serie tv da vedere la sera o stia chattando con un amico parlando di calcio. Sono sempre tutti fastidiosamente rispettosi: “ah, stai lavorando…”

In compenso chiunque viene a casa non perde occasione di farmi sapere che, anche di giorno, ci sono tutte le luci del giardino accese. Dicono cose come: “ma la luce non la pagate?”
E, anche se so che consumare energia non è affatto una cosa bella, è come se fosse un modo inconscio per ricordarmi che alla fine, in un modo o nell’altro, ce l’ho fatta.

Alla fine sì dai, almeno visto da fuori, ce l’ho fatta.

Quando il mio amico di sempre firmò il suo primo contratto ero al settimo cielo. C’erano stati una serie di eventi che rendevano quel contratto un successo insperato. Ero felice davvero. Come se quel contratto lo avessero fatto a me. Ed orgoglioso di lui.
Poi però la sera iniziai a pensare che da quel momento il mio amico avrebbe cambiato sport.
Avrebbe abbandonato la vita degli squattrinati che al ristorante non scelgono guardando piatti e ingredienti ma il prezzo che vi è accanto. Realizzai che dal mese successivo ogni mese avrebbe ricevuto quasi 2 mila euro al mese.
Mi vergognai di scoprirmi invidioso.
Ma più che invidia era altro: il peso del fallimento.

Oggi quella cifra non mi sembra più così invidiabile. Come quelle 4 banconote da 100 di quel giorno in farmacia.
Sono l’orgoglio di mamma e persino di suocera. L’orgoglio del mio commercialista. Un fantastico esempio di freelance che ce l’ha fatta.

Lato oscuro

Solo che come diceva Matt Damon in quella scena: “come ti insegnano al primo anno di legge, l'acquirente si assume il rischio”.

Il rischio. E il prezzo.

Da 7 anni circa non sento più nessuno che mi dice “trovati un lavoro.”
Ma hanno iniziato con: “parlane con qualcuno, magari ti dà qualcosa”.

“Qualcuno” sta per “parlane con uno psicologo”. Qualcosa per “ansiolitici”.

Da 7 anni non ho staccato neanche un giorno. Mai.
Natale, Pasqua, Estate. Per me non esistono.
Quasi due anni fa, alla nascita di Camilla, siamo dovuti andare in ospedale d’urgenza perché mia moglie stava male e infatti ha partorito al settimo mese.
Siamo scappati letteralmente da casa. Ma ho fatto in tempo a prendere il pc.
E subito dopo che la bimba è nata io ero in auto con pc e cuffie per una riunione.

Da 7 anni se faccio lunghi tragitti porto con me sempre una bottiglietta d’acqua. Così mi hanno consigliato e così mi sento più sicuro se dovessi avere quella sensazione terribile di compressione alle orecchie e non riuscire a deglutire.
Fortunatamente mi succede di rado, ma devo averla sempre con me.

Da 7 anni.
Non riesco più a vedere un thriller. Mi mette ansia.
In realtà mi mette ansia guardare qualsiasi film con una trama appena un po’ più complicata.
Guardo solo cose che ho già visto. O robe fantasy che parlano di mondi diversi dal nostro, senza tecnologia e in genere più lenti.

Quando non mi vengono idee entro in crisi.
Quando mi vengono le idee entro in crisi lo stesso: ho una scarica di adrenalina per stargli dietro e non riesco a fermarmi per ore.

Da 7 anni ho smesso di giocare a pallone. Prima facevo almeno tre partite la settimana.
Ho smesso perché durante una partita mi è girato il mondo e un attimo dopo mi sono ritrovato alle prese con un attacco di panico.
Il cardiologo al quale mi sono rivolto subito dopo l’accaduto mi ha trattato come un idiota e ricordato che avevo solo 30 anni.

Io però ho paura uguale.
Ho paura di morire. Di perdere il controllo. Soprattutto di svenire.
L’anno scorso, proprio di questi tempi, sono svenuto davvero.
Per strada.
Ero in auto con mia mamma stavamo andando a ritirare una pizza. Sono sceso dall’auto per entrare e ho sentito che qualcosa non andava.
Ho detto: “sto svenendo”.
E lei, come deve fare una mamma. “No, tranquillo. Non svieni”.
Alla fine sono svenuto.
Mi sono ritrovato a terra circondato da sconosciuti che provavano ad aiutarmi e tranquillizzarmi, dietro le loro mascherina ovviamente.

Poi ho fatto dei controlli.
Hanno detto “tutto ok. È stress”.

Il punto è proprio questo.
Quando anni fa, per qualche mese mi convinsi ad andare in palestra avevo un istruttore americano di nome Michael.
Era in città perché giocava a baseball e arrotondava come personal trainer.
Io non ho mai avuto un fisico statuario, sono sempre stato magrolino. Ma in quel periodo mi ero fissato col mettere su un po’ di muscoli. Mi ammazzavo di esercizi.
E lui puntualmente mi fermava. Mi diceva che bisogna sforzarsi ma senza esagerare.
Non solo lo diceva ma mi impediva proprio di continuare.
Con l’attrezzo ad esempio con cui si allenano i dorsali poggiava una mano sopra e non potevi farci più niente.
Stop. Ci si ferma. ok.

Ma se fai un lavoro mentale come ci si ferma?
Io sono tutt’altro che uno stakanovista, almeno nel senso tradizionale del termine.
Non lavoro affatto dodici ore al giorno. Anzi, credo davvero di lavorare pochissimo.

Solo che non ti fermi comunque mai.
Vivi tra sogni e rimorsi. Tra paura e speranza.
oppure, vai avanti come diceva di fare Isak Dinesen. Che diceva di scrivere un po’ ogni giorno, ogni santo giorno, senza speranza e senza disperazione.

Ogni tanto ti arriva un’idea e la insegui.
Ogni tanto non ti arriva e ti viene il rimorso di non averla.

Ogni tanto sei propositivo e chiami un cliente dicendo che bisogna fare per forza qualcosa di nuovo.
Ogni tanto è lui che ti dice che bisogna fare per forza qualcosa di nuovo.

Poi, sempre a proposito di lavori mentali, c’è il fatto che se con un lavoro tradizionale ti pagano per lo sforzo fisico, o per la tua presenza, in questi casi invece ti pagano per altro.

Tempo fa ho dato un nome a questa cosa: ti pagano per dividersi la pressione.
Dicono che sei pagato nella misura in cui risolvi i problemi. Ma non è proprio così.
Nessuno risolve sempre i problemi.
Non so gli altri ma io penso che ci azzecco solo qualche volta. Una volta su 10. Due volte su 10. Fosse anche che ci azzecco la metà cambia poco.
A volte risolvi i problemi, a volte ci provi.

Un cliente non è stupido e sa che è così. Ma gli va bene.
Ti paga per sapere che c’è qualcuno che, a un problema, ci sta pensando insieme a lui.
Non è cattiveria, funziona proprio così.
Per un mio progetto ad esempio ho “assunto” tempo fa una persona per darmi una mano con il marketing. L’ho pagata due mesi per non fare niente. Non per colpa sua, sia chiaro, ma perché il progetto ha visto una serie di intoppi e rallentamenti.
Però ogni volta che la sentivo ero felice come un bambino.
Lei faceva la stessa faccia che faccio spesso anche io. Come a dire: “sei contento di che?”
Io però ero contento. Già per Il fatto che qualcuno stesse pensando a un problema mio.

E così, pur senza cattiveria, ogni mattina, ti viene dato qualche problema in più a cui pensare. Se non te lo danno, quasi sempre sei tu a trovarlo da qualche parte.

Così ogni mattina hai un qualche tipo di problema. Tuo, non tuo, poco importa.
E non devi fare niente. A volte non puoi neanche fare niente fino a quando non trovi la soluzione. E a volte, come detto, la soluzione neanche la troverai.
Però pensarci sì.
Spartirsi la pressione sì.

La mia pressione. La tua pressione. La nostra pressione. In un mondo connesso facciamo tutto questo tutto il giorno: condividiamo e scambiamo pressione.


E così niente thriller. Solo commedie stupide. O robe inverosimili, di maghi e draghi, che non parlino di questo mondo qui.

“Tu non sei il tuo lavoro.” Davvero?

Alla fine si tratta di soldi. Ma non solo e in realtà non è neanche l’elemento dominante di questa storia.

Da una parte è molto semplice: al di là di quanto tu possa guadagnare sai per certo che nulla è certo.
Incertezza e imprevedibilità sono fattori più che sufficienti per non farti dormire la notte.
Puoi bloccarti o puoi essere spinto a fare ancora di più.
E questo, come detto, è abbastanza semplice.

Poi c’è la natura del cambiamento. Diverso da quanto conoscevamo. Come funzionerà domani il nostro mondo?
La parola chiave è “rilevanza”. Con problemi nuovi domani, saremo ancora rilevanti?
Questo ti porta, al di là del lavoro effettivamente svolto, a interrogarsi di continuo e cercare di creare continui aggiustamenti, exit strategy, esplorare strade nuove.

Ma soprattutto, almeno per i lavoratori della conoscenza, c’è che noi siamo il nostro lavoro. Checchè se ne dica e per quanto sia bello sparare un articolo nell’etere al grido di “no, non sei il tuo lavoro!”
Noi lo siamo eccome.
Non possiamo neanche provare a pensarla diversamente.

Questa cosa mi fa pensare agli scacchi.
Gli scacchi sono, come li ha definiti Tartakover, lo sport più violento del mondo. Perché riguarda la mente.
Quando ti trovi di fronte a un avversario alla fine, giusto o sbagliato, si tratta di stabilire chi sia il più intelligente.
E nessuno accetta di essere meno intelligente del prossimo.

Puoi giocare a calcio e invocare il fattore fisico. Lui è più alto, grosso, veloce. Tu avevi la caviglia in disordine, ecc.
Puoi perdere sui 100 metri perché di fronte hai Bolt.
O perché ultimamente hai mangiato male e sei sovrappeso.
Puoi perdere una mano di poker perché anche se hai fatto tutto giusto è stata sfortuna.

Ma negli scacchi, almeno in teoria, non hai scusanti.

Con il lavori della conoscenza è più o meno così.
Se sei un copywriter e non hai clienti, è un problema.
Non solo economico. Certo, almeno all’inizio sì. Ma un certo percorso quando inizi è sempre da mettere in conto.
Ma se poi scelgono puntualmente un altro allora il problema sei tu. E tu sei il tuo lavoro.

Non può esistere qualcosa come equilibrio vita/lavoro, Life-work-balance. Puoi solo provare a creare una vita che abbia senso.
Anche con tutte le pressioni del caso.

Credo sia questo che porti così tanto stress.
Non tanto lavorare ma cercare di trovare e fare il lavoro che sentiamo significativo.

Di questa cosa mi trovo a parlarne spesso in merito al Personal branding.
Quasi sempre si pensa a una tecnica che, presto o tardi, ci porterà a essere scelti dal mercato. A fare soldi e più soldi.
Ma non è affatto di questo che si tratta.

Il personal branding per come la vedo io non risponde alla domanda: “come faccio soldi?” Ma a “come voglio fare soldi?”

Su questo ha scritto tempo fa un bell’articolo Steve Pavlina. Racconta di come le sue entrate fossero per lo più di tipo pubblicitario. Si parlava di tanti soldi. Ma a un certo si rese conto che fare soldi in questo modo lo allontanava dalla persona che si sentiva di essere e che avrebbe voluto diventare. Lo faceva stare male.
Tolse ogni tipo di annuncio. Gli amici gli diedero del pazzo. Credo si sia dovuto sentire particolarmente stressato.

Ma è questo il punto: il lavoro più stressante è il continuo tentativo di allineare chi siamo a ciò che facciamo.

E a meno che tu non abbia la capacità di dissociarsi o non farti domande, è maledettamente stressante.
È maledettamente umano.

Problemi di serie b e di cui non parlare

Sono cose che scrivo per la prima volta e di cui si sconsiglia di parlare. una volta un tizio me lo ha detto apertamente: "non dire queste cose, appari debole. inaffidabile. Poi i clienti non si fidano". E cose di questo genere.

Non gli diedi ascolto. e non lo faccio oggi.
Per quanto parlare di stress, paura e ansia mi porti ansia, credo sia necessario parlarne.

sopra in foto: la mia espressione quando mi dicono di cosa posso o non posso parlare :)

Quando non hai soldi per mangiare, puoi andare in giro a dire quanto fa schifo il mondo.

Per chi è in una situazione simile alla mia non puoi farlo.
Voglio dire: il mondo sta cadendo a pezzi, le persone lottano per sopravvivere, e tu ti lamenti?

Se è vero che siamo tutti cresciuti con l’idea del lavoro come fatica, un’idea altrettanto diffusa è che certi lavori invece abbiano solo lati positivi. “Sempre meglio che lavorare”, dopotutto. Come diceva Montanelli.

Oppure mi viene in mente quella volta nel 2001. Quando Arrigo Sacchi, ai tempi allenatore del Parma, si presentò in conferenza stampa, in lacrime, e disse che non ce la faceva più. Stress. Troppo stress.

Ulivieri, che ne prese il posto, con il solito garbo e l’intelligenza che lo contraddistingue, si espresse così: “Lo stress ce l'hanno quelli che lavorano nelle concerie".

Tempo fa, rimanendo in ambito calcistico, una decisione simile la prese Prandelli. Ieri è toccato fare un passo indietro a Simone Biles, la ginnasta americana che ha rinunciato a difendere il suo titolo olimpico per dedicarsi al suo benessere mentale.

Ma la verità è che viviamo una società che sembra andare avanti ma lo fa seguendo strade vecchie.

Si può stare male se non hai un lavoro. Ed è sacrosanto, dicono.
Si può stare male se ti spezzi la schiena. E ci mancherebbe.
Ma se hai un lavoro dignitoso, dove non ti sporchi neanche così tanto le mani, che magari ha a che fare con la tua passione, che “può gestirsi giornate e orari”, non puoi permetterti di lamentarti.

Che poi non si tratta di lamentarsi.
Almeno io non mi lamento.

Si tratta di contestualizzare. Di capire che: come persone viviamo tutti il peso e le cicatrici del passato, la pressione del presente, i sogni e le paure del futuro.

A me il mio lavoro piace e non farei niente di diverso.

Si tratta di accettare. E accettarsi.

Si tratta forse anche di accettare anche una continua insoddisfazione.
Ieri me lo ha fatto notare Ferdinando, un amico e collega, in merito a una roba che avevo scritto qui sul vagliare di continuo le opzioni della nostra vita e della nostra carriera.

Mi ha scritto: non è che poi siamo continuamente insoddisfatti?

Ho risposto dicendo tutto ciò che hai letto qui. Solo in forma più sintetica: “hai ragione” ho risposto “ma c’è da dire che io sono fatto proprio così”.

Anche questa è una cosa che non puoi dire.
Non puoi dire che sei fatto così.
Non puoi dire che sei ansioso e non vuoi andare nei posti affollati. Perché se lo dici allora ti dicono che devi farti curare.

Ma se io volessi evitare i posti affollati? Se per me fosse un costo accettabile in cambio di altre cose?

Ho preso una villa in campagna proprio per questo.
Ho un giardino di 5000 metri proprio per evitare di essere sempre chiuso in casa tra quattro pareti.
Ho scelto i miei clienti tra coloro che non soffrono se lavoro a distanza.

Perché devo cambiare io e non può cambiare il modo in cui lavoro?

È chiaro che alcune cose non le risolvo così.
Che qualche “problemino” rimanga.
Ma anche qui: o continuiamo a inseguire l’idea della perfezione o accettiamo quello della fragilità umana.

A proposito di psicologi di cui parlavo prima, io ho un amico che sento con costanza.
Riguardo la mia ansia un giorno mi disse una cosa che mi cambiò la vita.

Mi disse: “senti Davide, fai finta che hai il diabete”.

Se hai il diabete hai di sicuro qualche problema ma non ti vergogni per questo. Ci stai male. Ma non ti dai la colpa per questo.

Con i problemi di carattere mentale - già scriverlo mi mette a disagio - invece lo facciamo continuamente.
Con le nostre paure e insicurezze lo facciamo continuamente.

Da quel giorno ho fatto almeno un po’ pace con la mia ansia e le mie fobie.

È un costo.
Un costo che spero prima o poi diminuirà ma di cui non mi vergogno più né mi scuso.

Proprio di recente ad esempio sono stato una settimana fuori per un evento con un’azienda. Mi sono messo in macchina e fatto centinaia di km; come gli adulti.
L’ultima sera, prima di cenare al ristorante con il team, ho iniziato ad avvertire quella sensazione così familiare.
C’era caldo, tanto caldo.
La pressione bassa non aiuta.

Ma quando si sono avvicinati preoccupati ho risposto subito senza alcuna remora: “è ansia. Cavolo è ansia. Meglio che io torni in hotel”.

Ho avuto ed ho la fortuna di avere intorno, come clienti e partner, sempre persone speciali. Mi hanno fatto un po’ di coraggio, nessuno ha minimizzato o detto cose come “pensa positivo” o “è tutto nella tua testa”.

E credo stia qui la ricetta di tutto: provare a cambiare ma anche saper scegliere.
Se io sono fatto così, se noi siamo così, e ad altri non andiamo bene, non cambio io. Non dovremmo essere noi a sforzarci di cambiare o vergognarci.

Forse siamo semplicemente con le persone sbagliate, nel posto sbagliato.

Tutto qui.

Come dice il mio amico Giovanni: anche questo è “Pura vida”.


Extra: se siete ancora qui, vi lascio una chicca sull'argomento: 

Ho sentito una barzelletta… Un uomo va dal dottore, gli dice che è depresso, che la vita gli sembra dura e crudele, gli dice che si sente solo in un mondo minaccioso… Il dottore dice: «La cura è semplice, il grande clown, Pagliacci, è in città! Lo vada a vedere, la dovrebbe tirar su!». L’uomo scoppia in lacrime: «Ma dottore… Pagliacci sono io!». Buona questa. Tutti ridono. Rullo di tamburi. Sipario.

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