Fai come ha fatto lui, lei, loro. Ma tu non sei lui, lei, loro.

Ci sono città dove tutto scorre lento e in modo noioso ed altre invece dove ogni giorno ha qualcosa di riservare. Anche se non sempre di piacevole.
Nel Kentucky, c’è una di queste città qui: Harlan. Una città che ancora oggi è famosa più per le sue risse del passato che per qualcosa degno di reale interesse. Una città in cui gli sceneggiatori troverebbero giusto e gustoso ambientarci una qualche serie apocalittica. Per restare in tema.
Harlan è sempre stato un territorio impervio, roccioso, con pareti rocciose che si alzano sino a 3000 metri e valli strette in cui ogni spostamento è una lotta alla sopravvivenza. Di contro, almeno alle origini, vantava una delle più grandi varietà di alberi al mondo: querce bianche, faggi, aceri, noci, sicomori, betulle, salici, cedri, pini e abeti canadesi.
Ma il vero motivo per cui Harlan è famosa – oltre all’essere ancora oggi ricordata come la città in cui un uomo, tale Condy Dabney ,venne processato per omicidio per aver ucciso una persona che in seguito fu trovata in vita – deriva a due famiglie fondatrici che a guardarle sembrano l’incarnazione dei Montecchi e Capuleti.
Tra le otto famiglie fondatrici di Harlan, due erano quelle realmente importanti: gli Howard e i Turner, costantemente in guerra e disaccordo.
Il patriarca del clan Howard era Samuel Howard. Costruì il tribunale e la prigione della città. La sua controparte, William Turner, possedeva una taverna e due empori. Una volta una tempesta abbatté lo steccato che cingeva la proprietà dei Turner e la mucca di un vicino andò a passeggiare sulla loro terra. nipote di William Turner, «Devil Jim», freddò la mucca con un colpo di pistola. Il vicino era troppo terrorizzato per sporgere denuncia e abbandonò in fretta e furia la contea. Un’altra volta un uomo cercò di aprire un negozio che avrebbe fatto concorrenza all’emporio di Turner. I Turner scambiarono quattro chiacchiere con lui. Il tizio chiuse il negozio e si trasferì nell’Indiana. Non erano persone affabili.
Ma il culmine arrivò con i loro discendenti.
Una sera Wix Howard e «Little Bob» Turner – nipoti rispettivamente di Samuel e William – si sfidarono a poker. Ciascuno dei due accusò l’avversario di barare. Ci fu una rissa. Il giorno dopo si affrontarono per strada e, dopo una raffica di spari, Little Bob rimase steso a terra con un colpo di fucile in pieno petto. Un gruppetto di Turner si recò all’emporio degli Howard e prese a male parole la signora Howard, che si sentì oltraggiata e ne parlò al figlio Wilse. La settimana dopo, in un’imboscata perse la vita un altro Turner. Un’imboscata simile, a parti invertite, costò la vita a un altro Howard.
E così via. La situazione continuò per diverso tempo.
Dopo tante morti, da una parte e dall’altra, gli Howard raccolsero le forze e aggredirono in pieno giorno la casa dei Turner. Il malcapitato in quell’occasione era Will Turner, il cui fratello era stato già ucciso qualche settimana prima in un agguato.
Quando gli Howard esplosero i primi colpi, la mira fu imprecisa. Una pallottola finì nel petto di un pover’uomo nei paraggi, altre invece lo colpirono ma non mortalmente.
Will allora corse in casa, trascinandosi dal dolore e con le mani sporche di sangue.
Sulla porta sua madre lo guardò con ribrezzo.
“Smettila di frignare”. Gli disse.
“Muori da uomo come tuo fratello”.
Will obbedì e venne freddato pochi istanti dopo, davanti casa.
…
Come ha scritto Malcolm Gladwell, dal quale ho appreso questa storia, “La donna apparteneva a un mondo così assuefatto alle ferite letali provocate dalle armi da fuoco da pretendere che fossero sopportate come si conveniva.”
Morire da uomini come il fratello, lavorare come i padri, badare alla famiglia come le madri
Quando ieri ho letto quest’ultimo verso, “muori da uomo come tuo fratello”, è stato come essere fisicamente lì. In quel buco di culo di Harlan con gli stivali sporchi di fango e forse di sangue.
È stato anche un classico dejà vu.
Ho sentito mille volte questa storia. Anche se nel mio caso non si trattava di morire come un fratello ma lavorare come chi mi ha preceduto.
Ho ascoltato storie simili da centinaia di persone.
Una commessa con il pallino dell’arte. Bravissima. Che però non ha potuto seguire la sua passione perché la cosa giusta era trovare un lavoro vero e mettere su famiglia.
Il manager di alto livello. Ma annoiato e vuoto dentro. Che non ha mai smesso perché mollare, cambiare e sognare non si addicono agli uomini con i piedi per terra.
Donne che per una vita sono state solo madri. Che è un mestiere e un’esperienza bellissima. Ma non è tutto. Se vuoi qualcosa in più.
Diritti negati sulla base di ciò che è venuto prima. Di un mondo con leggi scritte in qualche taverna o tribunale mentre noi non c’eravamo. Con idee e consigli che non si possono applicare al mondo; non a quello che viviamo.
Due fattori su tutti che caratterizzano il nostro nuovo mondo: il rischio e il senso di colpa.
Il rischio
In questi tempi di pandemia si ha quasi tenerezza nel parlarne: di sicuro c’è davvero poco, molto meno di quanto riteniamo.
Ma anche in tempi “sani”, globalizzazione e digitalizzazione hanno reso il nostro mercato e la nostra società veloci e schizofreniche. Quello che può funzionare oggi non è detto funzionerà domani. Assistiamo ad ascese rapide e velocissime cadute. A volte tocca a noi.
Il rischio ha bisogno di un nuovo significato, di vocaboli nuovi e nuovi modi di affrontarlo. Il rischio è quello di vivere una vita miserabile e non qualche mese o anno di miseria. Il rischio è fare ciò che non ti piace o fartelo piacere perché pare sia sicuro.
Il senso di colpa
Si pensa sempre che il costo di sogni ed obiettivi sia fatto solo da sacrifici e mancanza di sicurezza. Quasi vero. Il vero costo è il senso di colpa che sei disposto a sopportare.
Più voli in alto, più vuoi fare di testa tua e sfidare status quo e destini preconfezionati e più sei il tizio che rinuncia volontariamente alla stabilità ed alla sicurezza. Non ti capita come una malattia ma lo scegli volontariamente.
È questo che frega le persone. Il senso di colpa.
Come si sputa in faccia ad uno stipendio fisso o un lavoro stabile, o un tipo di lavoro (anche come imprenditore o libero professionista) che offre maggiori certezze? Non è mica una malattia, non è un fulmine che ti ha beccato mentre eri in terrazzo, no, te lo sei cercato.
Cosa ti sei messo in testa?
“Smettila di frignare”. Gli disse.
“Muori da uomo come tuo fratello”.
Carriere e montagne da scalare
Uso il termine “carriere” a modo mio.
Ho una visione del concetto molto fluida. Per me tutti abbiamo una carriera. Un libero professionista e un cassiere del supermercato.
Unico requisito, a mio avviso, sta proprio nel considerarla fluida, potenzialmente in evoluzione.
Chiunque si fermi la mattina o la sera a chiedersi cosa potrebbe fare, credo abbia una carriera. Anche se tutta da costruire. Anche se non lo sa ancora.
Ad ogni modo, quando penso alle nostre carriere penso a due montagne. Da scalare.
Ogni scelta ci porta a una montagna diversa e di tipo diverso: più o meno ripida, più o meno faticosa, più o meno redditizia, più o meno entusiasmante.
A un certo punto della nostra vita, per semplificare, però ce ne sono solo due. L’immagine che segue è la migliore rappresentazione che sono riuscito a fare.
La montagna di sinistra è quella che stiamo scalando. Possiamo trovarci ai piedi della montagna, in qualche punto tra la base e la vetta o anche in cima.
La montagna di destra è una “montagna alternativa”, una montagna dove ci saremmo potuti trovare prendendo scelte alternative. O una montagna che potremmo pensare di scalare.
La montagna di sinistra ha un premio, più o meno facile da raggiungere, noto. La seconda, la montagna alternativa, per definizione ha un risultato incerto.
Vincolo: per passare dalla montagna di sinistra a quella di destra occorre prima scendere da quella di sinistra. A volte può significare scendere dalla cima a un punto più basso; in termini economici: se vuoi iniziare a dedicarti ad altro, esplorare un determinato campo, è presumibile che inizierai a dedicarne di meno a quello attuale e guadagnare qualcosa in meno.
Per colpa della fortuna (e viceversa)
La cosa interessante di questa storia, almeno a mio avviso, è che la montagna di sinistra, quella che ci ritroviamo a scalare, è molte volte frutto di quella che chiamiamo "fortuna".
In sostanza si tratta del classico e temibile "cosa sarebbe successo se"; sliding doors. Ho già condiviso qui un modo divertente, o inquientante per rifletterci, tramite l'idea della roulette russa proposta da Nassim Taleb.
In questo caso, riguardo le carriere, penso sia molto efficace un' analogia proposta tempo fa da Scott Young .
Carriere e ristoranti
Quando vai al ristorante per la prima volta, apri il menu e cerchi di ordinare il miglior piatto possibile. Naturalmente non sempre sarai "fortunato". C'è da incastrare una serie di fattori: i tuoi gusti personali, l'umore dello chef, la freschezza degli ingredienti.
A volte capita di ordinare il piatto peggiore del giorno o quello che peggio risponde ai tuoi gusti. In questo caso è probabile che etichetterai il ristorante per "non buono", o quella determinata pietanza, e non tornerai più in quel ristorante; o farai un'altra scelta dal menu.
Ma cosa succede invece se il primo piatto che ordini ed assaggi in un ristorante ti soddisfa?
In questo caso potrebbero succedere due cose:
a) Non vorrai più valutare nessuna opzione e quando andrai a cena fuori, ti batterai per tornare sempre in quel locale lì.
b) Quando tornerai a ristorante sarai sempre portato (o tentato) di ordinare il piatto che ti ha così soddisfatto.
In entrambi i casi c'è un rischio: fare la migliore scelta peggiore.
Rimanendo ancorato al ristorante in cui hai assaggiato un piatto così buono, potrai perderti l'esperienza di ristoranti ancora migliori. Ordinando sempre la stessa pietanza, perderai il gusto di cibi ancor più prelibati.
Il rischio è scegliere il massimo di ciò che conosci, non di ciò che è presente sul mercato.
Personalmente sono una di queste persone. Almeno in fatto di cibo e ristoranti. E penso che per quanto "il dilemma del ristorante" abbia il suo fascino, possa anche essere considerato per quello che è: un gioco.
Ma che dire invece delle nostre vite e delle nostre carriere?
Un mio amico, che chiamerò Paolo, aveva talento da vendere nella musica. A vent’anni ebbe l’opportunità di succedere al padre in banca.
“Fortunato” dissero i parenti e chi nel frattempo faticava a mettere il cibo a tavola.
Ogni tanto sento Paolo e non si ritiene per nulla fortunato. Tutt’altro. Lo trovo sempre più stanco e perplesso. Insoddisfazione e nervosismo hanno fatto sì che il suo matrimonio andasse all’aria. Vede poco i suoi figli. Gioca buona parte dello stipendio in slot e gratta e vinci.
Paolo è più di un esempio. È una categoria in cui quasi tutti prima o poi ci ritroviamo o rischiamo di ritrovarci.
· Quando qualcuno ti offre un lavoro. E lo prendi. Anche se non ti piace.
· Quando inizi a lavorare in un campo per lanciarti in un altro. Ma inizi a guadagnare… e come fai a smettere?
· Quando trovi un modo facile per campare e ti dimentichi che da piccolo volevi cambiare il mondo.
· …
La montagna di sinistra, per quanto a prima vista possa apparire soddisfacente, è quasi sempre caratterizzata dai "primi sì”. Ma i primi sì non sempre sono ciò che realmente desideravi. Sono semplicemente i sì che ti dice la vita.
Drammi, crisi, assist meravigliosi
Quando ti accorgi che quel colpo di fortuna è stata una sciagura? Quando ti accorgi che a quel sì avresti dovuto rispondere no?
Solitamente tardi. Per definizione, quando è davvero troppo tardi. Magari in punto di morte. Ci sono diversi libri che raccontano rimpianti e rimorsi; anche di insospettabili persone di successo.
Prima è difficile. Sei in flusso. Sei in pista. La montagna rende bene.
Il senso di colpa. Un perverso senso del dovere.
“Smettila di frignare”. Gli disse.
“Muori da uomo come tuo fratello”.
…
Oggi mi guardo intorno e nelle difficoltà vedo diverse opportunità. Niente di fiabesco sia chiaro. Nulla di facile e a portata di mano. Anzi, sarà durissima.
Ma forse nella sfortuna si sgretoleranno molte di quelle montagne in cui ci siamo arrampicati.
Con il nostro ristorante preferito chiuso, forse avremo modo di trovare quello che davvero offre la cucina fatta per noi.
Con una strada non più facile ma maledettamente in salita, forse avremo il coraggio di incamminarci su quell'altra strada, quella che sognavamo di percorrere da bambini.
E, forse, sarà più facile abbandonare i sensi di colpa e il vecchio modo di fare le cose.
Guardare in faccia “la madre” e rispondere:
“No, grazie. Non sono mio fratello”.